Interessante articolo, “Verso un economia della Terra“, di Guy R. Mcpherson, su come contrastare lo sfacelo contemporaneo, adottando uno stile di vita sobrio e in sinergia con la natura, ma soprattutto utilizzando un economia di scambio basata sulle condivisione e sul dono.
Il mondo moderno ci costringe a vivere in modo immorale. Non c’è dubbio che una società che schiavizza, tortura e uccide le persone, fa abuso della terra e dell’acqua necessarie alla sopravvivenza della nostra e di altre specie è una società immorale, e tuttavia ciò è perpetrato con scioccante efficienza dal sistema economico globale, incarnato nell’impero statunitense. La maggior parte della gente sa che le multinazionali dell’energia avvelenano la nostra acqua, quelle dell’agricoltura controllano le nostre forniture alimentari, quelle del settore farmaceutico controllano il comportamento dei nostri figli, Wall Street il flusso dei nostri soldi, i grandi media le informazioni che riceviamo ogni giorno, e i “criminosamente ricchi” diventano sempre più ricchi sfruttando l’immoralità del sistema.
Ci ho messo un po, ma ad un certo punto ho gettato le carte sul tavolo e ho iniziato a lavorare assieme ad altre persone in un esperimento di transizione verso l’economia del dono. Vivo in una piccola valle semi-disabitata dove il dono è la regola, non l’eccezione. Condivido un piccolo appezzamento di terra assieme ad altri umani, anatre, papere, polli e piante. Abbiamo cercato, e continuiamo tuttora, di seguire uno stile di vita rispettoso della sana alimentazione, della giusta temperatura corporea, della condivisione tra esseri umani. Vivendo nell’anarchia agraria in una comunità ai confini dell’impero, sono diventato responsabile di me stesso e dei miei vicini, umani e non.
Segue articolo completo “Verso un economia della Terra“, di Guy R. Mcpherson.
DI GUY R. MCPHERSON
Guymcpherson.com
Dobbiamo sviluppare un nuovo sistema economico perché quello attuale non funziona. Il sistema industriale sta distruggendo ogni aspetto della vita sulla terra. E, fino a prova contraria, senza vita sulla Terra non è possibile sopravvivere.
Cercherò di descrivere brevemente gli orrori di questo intricato e devastante castello di carte globale. Proverò a indicare un’alternativa migliore, e non sarà cosa difficile. Molto più difficile sarebbe trovare un’alternativa peggiore. E i modelli cui rifarsi non mancano certo. Mi concentrerò su due di questi, l’anarchia agraria e l’Età della Pietra post-industriale.
Cosa non funziona?
Un resoconto particolareggiato dei malfunzionamenti dell’enonomia industriale richiederebbe un’intera biblioteca. Riassumendo, i problemi principali sono (1) il fatto che la disparità tra ricchi e poveri persiste anche al culmine dello sviluppo industriale occidentale; (2) l’eccesso di popolazione, in un pianeta che ormai è sovraccarico; (3) i cambiamenti climatici senza controllo prodotti dal surriscaldamento globale; (4) la distruzione all’ingrosso della vita sulla Terra, con l’estinzione di centinaia di specie al giorno, la perdita di acqua potabile e di suolo fertile.
In breve, come ho scritto sulla più importante rivista specializzata del settore, “il mondo moderno ci costringe a vivere in modo immorale. Non c’è dubbio che una società che schiavizza, tortura e uccide le persone, fa abuso della terra e delll’acqua necessarie alla sopravvivenza della nostra e di altre specie è una società immorale, e tuttavia ciò è perpetrato con scioccante efficienza dal sistema economico globale, incarnato nell’impero statunitense. La maggior parte della gente sa che le multinazionali dell’energia avvelenano la nostra acqua, quelle dell’agricoltura controllano le nostre forniture alimentari, quelle del settore farmaceutico controllano il comportamento dei nostri figli, Wall Street il flusso dei nostri soldi, i grandi media le informazioni che riceviamo ogni giorno, e i “criminosamente ricchi” diventano sempre più ricchi sfruttando l’immoralità del sistema. È così che funziona l’America. E, nonostante ciò, pensiamo ancora di vivere da brave persone nel paese dei liberi“.
Dovrebbe essere chiaro che l’economia industriale ci sta facendo ammalare, mentalmente e fisicamente, e sta distruggendo gli habitat delle specie viventi su questo pianeta. Sono convinto che sia necessario porre fine a questo sistema di vita — cioè, porre fine alla civiltà industriale – e sostituirlo con uno più sano e duraturo.
Alternative
Le alternative abbondano, e in generale si collocano in un ventaglio che spazia dallo status quo all’Età della Pietra postindustriale. In questo ventaglio voglio soffermarmi su tre punti: (1) lo status quo, che deve essere sovvertito se vogliamo continuare a esistere come specie ancora per più di qualche decennio, (2) l’anarchia agraria e (3) l’Età della Pietra postindustriale.
Il sistema attuale: l’economia industriale
Lo stadio attuale di sviluppo reca con sé una quantità spaventosa di controindicazioni: il sovrappopolamento, il caos climatico e la crisi delle specie animali in via d’estinzione. È il nemico principale che ci troviamo ad affrontare. Dobbiamo sbarazzarcene prima che sia lui a sbarazzarsi di noi. Considerando la velocità con cui il nostro sistema economico procede verso l’autodistruzione e l’assenza quasi totale di dibattito a livello nazionale e internazionale su come fermarlo, ho il sospetto che la nostra società precipiterà nell’Età della Pietra postindustriale nel giro di anni, non di decenni. Ma alle comunità e agli individui rimane sempre la possibilità di scegliere l’opzione dell’anarchia agraria.
L’anarchia agraria
L’anarchia come ideale politico pressupone l’assenza di un governo coercitivo e stabilisce l’associazione volontaria e cooperativa di individui o gruppi di individui come struttura portante dell’organizzazione sociale. Questo “rapporto di vicinato” dell’uomo con l’uomo e dell’uomo con la natura è l’ideale jeffersoniano all’origine degli Stati Uniti, come indicato da Monticello e qua e là da Thomas Jefferson nei suoi scritti. È anche il modello proposto da Henry David Thoreau e, più di recente, da pensatori radicali come Wendell Berry (scrittore e contadino), Noam Chomsky (linguista, filosofo), Howard Zinn (storico recentemente scomparso) e dall’iconoclasta di Tucson Edward Abbey.
Considerate, ad esempio, alcuni passi arcinoti da Jefferson: (1) “Il risultato del nostro esperimento sarà di consentire ai più di governare sé stessi senza un padrone“; (2) “Preferirei essere esposto agli inconvenienti di un eccesso di libertà che a quelli del suo contrario” e (3) “Quando la gente ha paura del proprio governo, è la tirannia; quando il governo ha paura della propria gente, è la libertà“. Anche se Jefferson non si considerava un anarchico, dalle sue parole e dai suoi ideali si capisce che auspicava fortemente una supremazia dell’individuo e un governo “minimo” che vegliasse sui cittadini senza pesare su di loro. L’etimologia greco-latina di “anarchia”, invece, suggerisce l’assenza totale di governo. Che non mi pare un’idea così cattiva.
Come Jefferson, Henry David Thoreau propugnò l’ideale di una società agricola vicina alla natura. Thoreau era uno strenuo sostenitore dell’anarchia agraria e attribuiva all’individuo un’importanza ancora maggiore che Jefferson: “Il governo migliore è quello che non governa; e quando gli uomini saranno pronti, questo è il governo che avranno.” Che io sappia, nessun governo nazionale ci ritiene pronti.
Balziamo alla fine del ventesimo secolo, ed ecco diversi altri filosofi schierarsi a favore dell’anarchia agraria. Forse gli esempi più famosi sono Wendell Berry, Noam Chomsky e Howard Zinn, ma la voce più esplicita è stata quella di Edward Abbey negli anni precedenti alla morte, avvenuta nel 1989: (1) “L’anarchismo non è una favola romantica, ma la presa di coscienza, basata su cinquemila anni di esperienza, che non possiamo affidare le nostre vite a re, preti, politici, generali e questori“; (2) “L’anarchismo è fondato sulla considerazione che siccome pochi uomini sono in grado di governare sé stessi, ancora meno sono in grado di governare gli altri“; e (3) “Il vero patriota deve sempre essere pronto a difendere il proprio paese dal proprio governo“.
Nei miei sogni, le nazioni industrializzate sono dirette verso l’anarchia agraria. Molti paesi l’hanno vissuta per anni e possono mostrarci la via. Quando una regione era esclusa dall’accesso immediato ai combustibili fossili, l’anarchia agraria era l’ovvia soluzione. Cos’altro se non un forte senso di autonomia e forti legami all’interno della comunità potevano permettere a queste comunità di coltivare e distribuire cibo a livello locale? Cos’altro poteva permettere loro di assicurarsi forniture d’acqua e proteggerle dalle grinfie delle multinazionali? Di sviluppare una struttura sociale fondata sul rispetto reciproco e sulla fiducia nel prossimo? Al contrario che nel nostro sistema, non avevano bisogno del denaro: i conti erano saldati per mezzo del baratto. Meglio ancora, l’economia agraria si sposa perfettamente con l’economia del dono.
L’età della pietra postindustriale
Per migliaia di anni la specie umana ha vissuto in comunità relativamente piccole a stretto contatto con la terra da cui traevano sostentamento. Questi uomini si conoscevano tra di loro e conoscevano le piante e gli animali con cui condividevano l’ambiente. Avevano impatto zero sul terreno e sulle risorse idriche che utilizzavano. Passavano poche ore al giorno in quello che chimiamo “lavoro”, allo scopo di assicurare l’accesso a acqua, cibo e fonti di calore a tutti i membri della comunità. Era un sistema di vita duraturo, caratterizzato dalla longevità e dall’impatto minimo sul pianeta.
Questa è l’epoca che con arroganza chiamiamo “età della pietra”.
La prima forma di civilizzazione si sviluppò poche migliaia di anni fa. È legata essenzialmente allo sviluppo delle città. In altre parole, la civilizzazione è caratterizzate da popolazioni umane troppo numerose per soddisfare i propri fabbisogni con le risorse locali. La città sopravvive grazie all’aria pulita, all’acqua e al cibo sano che trae dalle campagne circostanti, come anche il combustibile necessario a mantenere la temperatura corporea degli abitanti a circa 37 gradi. In cambio, le campagne ricevono dalle città aria sporca, acqua inquinata e spazzatura. Molte persone civilizzate pensano che si tratti di un grande affare, ma la realtà è che non può durare in eterno, perché l’abbondanza della natura ha dei limiti.
Lo stadio attuale della civilizzazione, l’economia industriale, è il modello meno sostenibile, in parte perché ha bisogno di crescere per sopravvivere. È come un organismo, che o cresce o muore. E il nostro pianeta limitato non può sostenere un crescita illimitata.
L’economia industriale ha bisogno di forniture di greggio pronte per l’uso e a basso costo. Il petrolio è il sangue che scorre nelle vene della nostra vita quotidiana. I derivati del petrolio fanno viaggiare comodamente persone, merci, idee. Senza conbustibili a basso costo per il trasporto di acqua, cibo, materiali da costruzione, l’economia industriale va in recessione.
Ciascuna delle cinque recessioni registrate dall’economia globale a partire dal 1972 è stata preceduta da un’impennata nei prezzi del greggio. Sono finiti i giorni del carburante a portata di mano. A livello globale, il picco di estrazione è stato toccato nel maggio 2005. Un leggero calo nella disponibilità di greggio, assieme alla crescita della domanda da parte di paesi in via di sviluppo come Cina, India e Brasile, ha aperto la strada a ulteriori impennate nei prezzi in futuro. Poco importa che vi siano al mondo quasi un trilione di barili ancora da sfruttare: il prezzo dei conbustibili è la cosa più importante per la crescita delle economie industriali.
Senza dubbio, i prossimi aumenti delle tariffe porteranno il sistema al collasso e ci spediranno con un biglietto di sola andanta tra le braccia della nuova età della pietra. Già adesso, il petrolio è così caro che le banche centrali e i governi nazionali non possono più permettersi di dare anche solo l’illusione di una crescita economica stampando valuta. Propio come stava per accadere nel 2008, quando il prezzo del greggio sfiorò i 147,27 dollari a barile.
Non è chiaro cosa il futuro abbia in serbo. Ho il presentimento che, al termine del collasso in corso, il tasso di mortalità avrà un’impennata di breve durata, ma di larga scala. Dopodiché le risorse energetiche provenienti da fonti rinnovabili verranno meno a loro volta, perché dipendono strettamente per il loro mantenimento da settori che si reggono sul petrolio. Le batterie della maggior parte dei pannelli solari installati nelle case e delle centrali eoliche hanno una durata di un decennio o poco più. Quando l’economia industriale sarà crollata e non ci sarà più possibilità di generare energia attraverso le tecnologie rinnovabili, sembra proprio che gli esseri umani non potranno fare a meno di tornare a vivere a stretto contatto con i loro vicini e con l’ambiente naturale che consente la vita sulla terra. Ciò significa che sprofonderemo nell’età della pietra postindustriale, seppur provvisti di una tecnologia sconosciuta ai tempi del Neolitico. Gli strumenti più semplici, come coltelli e botti, rimarranno utilizzabili ancora a lungo. Le tegnologie più complesse, specie quelle che dipendono dall’elettricità, scompariranno dalla nostra memoria in men che non si dica.
Un’economia basata sullo scambio di doni
Allo stadio attuale dello sviluppo industriale la maggior parte della gente è ossessionata dall’economia terziaria (pezzi di carta verde dal valore simbolico – i soldi – e componenti magnetici di schede elettroniche). Pochi individui lungimiranti si concentrano invece sul settore secondario (gli oggetti che usiamo nella vita di tutti i giorni) che si basa saldamente sul settore primario, fondamentale eppure trascuratissimo. Quest’ultimo ha a che fare con i rozzi materiali che sfruttiamo per sopravvivere, e su cui forse prosperiamo. La fede nei simboli dell’economia terziaria svanirà quando la gente si renderà conto che ci sono troppo pochi strumenti da poter adoperare (l’economia secondaria) e poche materie prime per ottenerli (economia primaria). Il risultato sarà che i simboli perderanno gran parte del loro potere.
L’economia basata sullo scambio di doni ha funzionato per i primi due milioni di anni della storia umana e, con il collasso del sistema industriale dovuto alla scarsità di combustibili fossili, siamo destinati a tornare a qualcosa di simile. Faremmo bene a usare la storia come una guida per il nostro futuro senza combustibili. Il nostro sistema monetario è basato sulla fede in simboli e ci dà la falsa impressione di poter guadagnare molto in cambio di niente. Invece, ci ruba il nostro senso della comunità.
Le persone provviste di denaro abbondante non hanno bisogno di partecipare a una comunità di persone. La ricchezza consente loro di comprare beni e servizi, e non hanno bisogno di conoscere i nomi di chi fornisce loro tutto questo. Lo stesso per i nomi delle piante, degli animali, del suolo, dell’acqua da cui dipendiamo per la nostra sopravvivenza.
Al contrario, le persone indigenti dipendono molto dai vicini. I poveri delle campagne riconoscono che I vicini includono i non umani, oltre che gli umani. La vera comunità si basa sul dono, e il dono è quello che ci fanno la terra e l’acqua che ci sostengono non meno di quanto fanno i nostri simili.
Un esempio personale
Avevo in mano le carte vincenti. Ma ho mollato la partita. I miei genitori hanno fatto gli insegnanti per tutta la vita. Così anche mio fratello e mia sorella. In tutta la famiglia sono stato l’unico a raggiungere l’apogeo dell’educazione. All’età di quarant’anni ero professore ordinario all’università. Ho voltato le spalle a quella vita, che amavo, e molte persone pensarono che fossi diventato matto. Ho voltato le spalle dopo aver tentato invano di cambiare quel sistema moralmente corrotto, quando mi resi conto che era il sistema che stava cambiando me.
Ho gettato le carte quando mi sono reso conto che il primo passo da fare per distruggere quaesto sistema corrotto è abbandonarlo. Siccome ero nato in cattività e avevo assimilato i normali pregiudizi di un mondo impazzito, mollai più tardi di quanto avrei dovuto e solo dopo, molto tempo dopo, mi resi conti dell’immoralità del sistema. Gran parte di questo ritardo fu dovuto dalla mia incapacità di stabilire dove e come lasciare il sistema. Ero arrivato a considerare il sistema economico industriale al suo apice una cosa orribile ma, siccome era l’unico che avessi mai conosciuto, non avevo idea di come fare a uscirne. Alla fine, dopo diversi anni di riflessione e qualche tentativo abortito di evasione, assieme a mia moglie riuscii a costruirmi una vita nuova improntata all’anarchia agraria in una piccola proprietà condivisa con un’altra famiglia.
Dopo aver gettato le carte sul tavolo, ho iniziato a lavorare assieme ad altre persone in un esperimento di transizione verso l’economia del dono. Vivo in una piccola valle semidisabitata dove il dono è la regola, non l’eccezione. Condivido un piccolo appezzamento di terra assieme ad altri umani, anatre, papere, polli e piante. Abbiamo cercato, e continuiamo tuttora, di seguire uno stile di vita rispettoso della sana alimentazione, della giusta temperatura corporea, della condivisione tra esseri umani. Vivendo nell’anarchia agraria in una comunità ai confini dell’impero, sono diventato responsabile di me stesso e dei miei vicini, umani e non.
Questo stile di vita è di gran lunga superiore a quello che avevo in precedenza. Bevo acqua pura da un pozzo locale azionato a mano e con pannelli fotovoltaici. Mangio sano, cibo biologico coltivato in gran parte sulla mia proprietà. La mia abitazione è ben coibentata e autonoma dal punto di vista energetico, non utilizzo mai energia proveniente da combustibili fossili. Conosco i miei vicini, umani e non, e loro conoscono me.
Alla fine, meglio tardi che mai, sono riuscito a vedere gli orrori del nostro stile di vita, e ad abbandonarlo. Unitevi a me, per favore.
Guy McPherson è professore emerito di Scienze Naturali e di Ecologia e Biologia dell’Evoluzione presso l’Università dell’Arizona, dove ha insegnato e condotto ricerche per 20 anni. Ha scritto oltre 100 articoli, dieci libri, l’ultimo: Walking Away From Empire, e per molti anni ha studiato la conservazione della biodiversità. Vive in una casa di paglia autosufficente, pratica la coltivazione biologica e l’allevamento, lavorando all’interno di una piccola comunità rurale. Per saperne di più visitate guymcpherson.com o scrivetegli all’indirizzo grm@ag.arizona.edu